Storia della prima pietra
serva Hominis serva Domini

di: Giampietro Livini

Nell’estate del 1988 Don Enrico mi chiese di preparare il bozzetto della prima-pietra per la nuova chiesa. Non occorsero disegni perché in una cava abbandonata trovammo una pietra che, nel suo incavo, lo scalpellino di nome Gelindo aveva per anni temprato in Valle d’Adige le punte dei ferri da lavoro. E questa è la storia che ci ha raccontato la Pietra.

“Padre Santo, benedici questa prima pietra che noi poniamo qui nel nome del Tuo Figlio, pietra annunziata dal profeta, che si stacca dal monte senza mani dell’uomo”.

Il vapore dell’incenso si è adagiato sull’erba, attutendosi, pian piano, nella sera. Qui, sul prato, dove sono collocata, ho sentito asciugarsi su di me l’acqua benedetta e il silenzio arrivare; ascolto, in esso, il mio cuore. Quando il Vescovo ha impartito la benedizione di Dio su di me, nel nome del Figlio” pietra che si stacca dal monte senza mani dell’uomo”, l’intera memoria della terra in me depositata ha avuto un sussulto ed uno spasimo: “io” sono stata staccata dal monte dalle mani dell’uomo! Ma è stato questo a conferirmi per lui con una fisionomia, una storia che mi ha portato qui. A quell’epoca la mia fisionomia era inserita in una collina nella Valle d’Adige, l’uomo chiamava quel posto Volarnie.

Dalla memoria collettiva racchiusa nel mio cuore sono riaffiorate impressioni antiche di passi e belati di pecore, di passi e voci di uomini. Reiterate quelle di un uomo, piccolo allora, il cui buffo nome risuonava sovente in vari richiami, teneri, apprensivi, irritati: Gelindo.

Gelindo era un piccolo pastore che cresceva sul monte insieme alle pecore, le sue manine erano però già grandi e forti; un po’ irrequiete, quando tra l’erba cercava le coccinelle e i grilli: la sua passione. La sua voce, il cui timbro sonoro è così impresso in me, intonava allora filastrocche un po’tristi e un po’ prive di senso ma per la sua mente bambina magiche e sicuramente propiziatorie: Quelle mani e quella voce le ho poi sentite e riconosciute altre volte nel corso della “mia” storia.

Un tempo dopo un grande subbuglio, una specie di terremoto fatto dall’uomo con la dinamite, sono esplosa insieme alle altre e mi sono ritrovata adagiata più a valle. Sono rimasta là dove ero caduta, per un po’ di tempo senza che succedesse più nulla.

Per quella sapienza nascosta della vita che gli uomini chiamano a volte caso, a volte Provvidenza, è stata la mano di Gelindo a toccarmi per prima e ho potuto registrare nuovamente la sua voce che diceva: “questa no, non serve per la Chiesa, ma ha una forma particolare, tiriamola su perché ci potrà servire in qualche modo”.

Era successo, nella storia degli uomini, che Gelindo, crescendo, era diventato il padrone di una impresa e che quello fosse uno stabilimento per la lavorazione delle pietre estratte da una cava: la mia montagna-madre. Le pietre dovevano essere grandi per poter venire utilizzate per le chiese già allora questa parola mi risuonò vicino e la mia fisionomia era troppo piccola. Aveva però ottenuto una specie di conca naturale su una delle facce e questo sembrava utile all’uomo.

Quando la riempirono per la prima volta d’acqua ed essa rimase lì ferma, provai una impressione di novità e come di piacere. Quando per la prima volta immersero nell’acqua della conca un ferro rovente potei registrare il brivido dell’acqua e una risata di ragazzo, subito dopo quello stesso ferro era appoggiato su un’altra parte di me e il ragazzo batteva grandi colpi di martello che vibravano tutti nelle mie vene.

Le lavorazioni del supporto

Accadeva che quello era il modo scoperto da Gelindo per rendermi utile: su di me l’uomo ritemprava gli attrezzi che gli servivano per lavorare le altre pietre sorelle. Questo successe per molti anni.

La storia dell’uomo muta nel suo tempo e anche gli strumenti del suo lavoro in quello che egli chiama progresso. Accadde quindi che io non fossi più utilizzata e fossi perciò spostata ai margini della cava. Per molto tempo registrai solo i vari moti del vento e il silenzio. Altra acqua ogni tanto riempiva la mia conca e, quietamente, evaporava. Una volta l’acqua divenne dura nella conca e tutt’intorno era molto freddo. Un’altra, un uccellino venne a bere e volò subito via.

Furono i passi di Gelindo a ridestarmi un giorno accompagnati da passi nuovi, energici, un po’ nervosi, forse. Una mano più piccola di quella di Gelindo e sottile, posata su di me, acuì la mia capacità ricettiva mentre una voce diceva che ero “strana e bella” e chiedeva a Gelindo a che cosa “io” fossi servita.

Ero una pietra di scarto ma che per vari anni avevo sempre servito agli uomini, come supporto al loro lavoro. L’architetto così lo chiamava Gelindo rispondeva che “io” avrei continuato a servire ma in altro modo e che per la sua umile storia e la strana fisionomia la pietra di scarto sarebbe diventata la prima pietra della nuova Chiesa di Assago.

CHIESA: ancora quella parola! L’architetto disse a Don Enrico: “Potrà servire anche da acquasantiera”. E dunque qui alla base della Croce in legno dove ora sono collocata sorgerà una nuova Chiesa. Nella mia conca metteranno ancora acqua ma sarà acqua benedetta, come quella usata dal Vescovo per aspergermi stasera. Gli uomini, i bambini, metteranno le loro mani, non più il ferro rovente, dentro di essa e con essa si faranno il segno della croce in memoria riverente del Signore Gesù, il Redentore.

Tante storie, tanti sogni umani mi passeranno così nuovamente accanto e quelle mani saranno come ali a far volare il cuore ed il pensiero più presso la bontà e l’amore universali. Questo dice la memoria; questo sarà, così come sempre è stato.

Incideranno su di me, nella lingua che per gli uomini è sacra, una scritta: SERVA HOMINIS SERVA DOMINI: colei che ha servito l’uomo, ora serve Dio. Può una pietra essere più felice?

 la “prima pietra della chiesa” e la “pietra di lavoro” dello scalpellino Gelindo