La nuova Chiesa Santa Maria in Assago
Di: Maria Antonietta Crippa e Gabriele Schiatti
A proposito della bellezza della Chiesa Cristiana
La storia europea ci ha consegnato un territorio fittamente costellato da edifici destinati ad accogliere i fedeli per le celebrazioni liturgiche, costruzioni nelle quali le ragioni della plantatio ecclesiae, cioè dello stabile insediarsi della vita cristiana in un luogo, e quelle di una ben definita volontà d’arte hanno collaborato, per lunghi secoli. L’architettura e l’arte destinate a tale scopo hanno avuto, fino al XIX secolo, una dimensione pubblica facilmente compresa e condivisa. Potevano infatti riferirsi a immagini e a tipologie architettoniche riconoscibili nell’alveo di tradizioni fortemente dinamiche, ma solidamente ancorate, nello stesso tempo, alla conservazione di moduli espressivi e tipi spaziali, di cui di volta in volta si proponeva la reinterpretazione.
L’artista era chiamato a rinnovare i connotati concreti, di tempo e spazio, di una esperienza che era già nota, che doveva essere rivissuta con quell’accento di attualità, indispensabile all’evento centrale dell’esperienza cristiana -l’incarnazione che richiede, ogni volta, luogo e tempo particolari. L’architettura e le arti contemporanee hanno attraversato nel secolo XX una straordinaria avventura che ha turbato il ritmico riproporsi di una tradizione spazio-figurativa praticamente bimillenaria. La scossa, dovuta ad un fascio complesso di ragioni, ha comportato possibilità espressive precedentemente insospettate, consentite dalle nuove tecnologie e da una più vasta percezione del creato.
Oggi, benché ancora totalmente inscritti nell’orizzonte di quel progresso che nella seconda metà del XIX secolo appariva fattore di assoluta positività, siamo consapevoli della sua non linearità, delle sue contraddizioni. Per questo volgiamo con rinnovato interesse lo sguardo al passato, alle tradizioni, al patrimonio di cultura che sembrava superato per sempre e ci mettiamo alla ricerca di una strada che tenga conto sia del meglio, che nel nostro secolo si è raggiunto, sia dei valori che il patrimonio storico veicola fino a noi.
In architettura e in arte ciò ha determinato oscillazioni fra forme antiche e nuove, tentativi di recuperi formali o di contaminazioni spesso poco accorti. Ha però anche causato un prudente dialogo tra forme tradizionali e nuove possibilità tecnologiche, attente calibrature tra preesistenze e nuovi interventi, tra componenti informali e astratte e componenti figurative.
A confronto con gli splendori del passato, l’invenzione di nuove forme ha potuto essere ancora, nelle migliori architetture, il rinnovarsi di una ri conoscibilità, di una comunicazione di senso. E’ riaffiorata la capacità di gettare un ponte tra presente e passato, tra preesistenze e nuova architettura, sia in realizzazioni altisonanti che in opere modeste.
Il dialogo tra antico e nuovo è penetrato con forza anche nel disegno degli spazi ecclesiali e, in particolare, in quelli da tempo configurati, soprattutto sulla spinta di un rinnovamento, dall’interno dell’istituzione e della vita sacramentale della Chiesa, che ha preso nome di Riforma liturgica. Una chiesa, tuttavia, non è soltanto un ponte tra il nuovo e l’antico, il segno di quella singolare continuità, capace di rinnovare le origini e di essere sempre in qualche modo inedita, che caratterizza la tradizione cristiana. Una chiesa è anche un luogo di unità di eccezionale importanza per la comunità dei cristiani.
Un teologo benedettino contemporaneo, Frédéric Debuyst, è riuscito a dare originale definizione, in alcuni suoi scritti (si veda in particolare: F. Debuyst, Il genius loci cristiano introd. MA. Crippa, Sinai, Milano 2000), al rapporto delle chiese con il luogo in cui si ergono, caso particolare del rapporto, singolare e irripetibile, tra una architettura e il suo contesto ambientale, che oggi viene sinteticamente indicato come genius loci.
Egli interpreta tale genius loci come ‘sentimento di identità’ degli abitanti rispetto ad esso ritiene che il ‘genius loci cristiano’, che può emergere negli edifìci ecclesiali o in luoghi di sentite devozioni, sia il ‘mistero del luogo’, vale a dire l’esprimersi di una condivisa identità cristiana da parte di una comunità locale. La formula può essere parafrasata anche con l’espressione: ‘sentimento di comune appartenenza a Cristo’, oppure ‘sentimento di comunione degli uomini in Cristo’.
Pertanto ‘genius loci cristiano’ e ‘mistero del luogo’ possono essere oggi praticamente assunti come sinonimi per dire una importante verità dell’esperienza e della creatività cristiane la realtà della presenza di Gesù Cristo in mezzo ai suoi, attuale sia nella celebrazione liturgica, sia nella persona dell’uomo redento cioè battezzato, sia nella intera comunità dei credenti. Tale mistero di presenza è anche genio del luogo, perché è all’origine di uno spazio e di un tempo con proprio significato e specifica immagine. Esso è cioè generatore di ambienti nei quali può maturare un sentimento di identità cristiana. Nel genius loci cristiano si fissa, dunque, una trasparente corrispondenza tra il fondamentale evento cristiano, che si sintetizza nel termine Incarnazione, e la qualità costruttiva e formale di una architettura, che ne sia ‘il luogo’ per eccellenza, in quanto ne ospita l’espressione liturgica.
Se si considera la storia dell’architettura nei duemila anni di tradizione cristiana che ci hanno preceduto, non si può fare a meno di riconoscere che tale genius loci è rintracciabile sia in costruzioni a destinazione religiosa come le chiese, sia spazi civili come la piazza, perfino in intere città, immaginate in epoca medievale come figura della Gerusalemme celeste.
Il territorio di tale dignità cristiana dell’architettura si è però gradualmente ridotto nella cultura occidentale degli ultimi due secoli; tale dignità è anzi oggi a tema solo per un numero ristretto di costruzioni, esclusivamente per i monasteri e le chiese.
Tale consapevolezza consente di cogliere l’importanza non solo artistica del patrimonio religioso di chiese, decorazioni ed elementi liturgici, un patrimonio nel quale entrano a pieno titolo anche le chiese del XX secolo, come quella di Santa Maria in Assago. Si tratta infatti di un patrimonio che testimonia, con la forza di un luogo fisico carico di influssi sull’immaginario collettivo, una tradizione cristiana bimillenaria solidamente ancorata nelle tradizioni culturali dei popoli ed espressa nelle più alte forme d’arte.
L’architettura, in qualche modo funzionante come gli oggetti, come un capo d’abbigliamento, è però qualcosa di più e di diverso da quelli. Opera dell’uomo, vertice della natura in quanto voluto da Dio come suo livello consapevole di sé e del proprio destino, essa è, potremmo dire, totalmente aderente alla sua condizione esistenziale. Essa anzi, con lui e come lui, è vertice della natura: questa è la consapevolezza che il costruttore deve avere e il fine che deve perseguire. “Lo spazio architettonico deve essere ritenuto un surplus di spazio, che si aggiunge a quello naturale per togliere l’incompatibilità che esiste tra quest’ultimo e lo spazio della nostra esperienza. Analogamente, il conflitto tra il terreno troppo duro e il piede fragile viene risolto con l’aiuto dei sandali che si legano ai piedi. Questi, come tutto l’abbigliamento, servono da complemento al corpo; inversamente, però, la dimora perfeziona lo spazio naturale
(Cfr. H. van der Laan, L’espace architectonique, Qiunze lecons sur la disposition de la demeure humaine, Leiden, NEW York, Kobenhavn, Koln, 1989, pag.14 mia traduzione)’, l’icastica formula di un altro monaco benedettino, l’architetto Dom van der Laan, definisce l’architettura come momento vertice della natura, sua più perfetta espressione, perché risolutrice del conflitto primordiale e primario tra esperienze umane e contesto naturale.
Ma il pericolo dell’architetto -sempre secondo Dom van der Laanè di limitare la sua professione allo svolgimento di un’arte costruttiva, che metta a disposizione degli uomini soltanto alloggi “perdendo di vista il ruolo primordiale della dimora, quello di riconciliare l’uomo con la natura, e di conseguenza di non accordare la necessaria attenzione ai principi fondamentali che, di fatto, regolano la forma della dimora”, poiché “nella sua forma, la casa deve essere, innanzi tutto, la realizzazione di una dimora umana quale il nostro essere, per sua natura, ha il diritto di esigere (ibiden). Dunque, l’uomo, fragile e indifeso nella vastità del mondo, diventa signore dello spazio naturale attraverso l’architettura, purché questa non sia soltanto esito della sia abilità o del suo genio costruttivo, ma raggiunga il livello di forma della sua umanità, sia figura del suo essere e del suo esserci nel mondo.
L’abitare, o la dimora, di cui parla van der Laan non è solo l’alloggio, è qualcosa di più vasto ed articolato, che nella casa ha il suo modulo più elementare e, nell’edifìcio della chiesa, ha lo spazio paradigmatico della condizione umana. Se la prima è infatti il rifugio in cui ognuno si ritrova con se stesso e con chi gli è più vicino e consanguineo, il secondo è la casa nella quale Dio si fa compagno dell’uomo, dove stringe gli uomini in una solidarietà di popolo in cammino nel tempo della storia, nella Chiesa.
In ogni orizzonte culturale gli uomini hanno voluto realizzare dimore per le loro famiglie e dimore per i loro dei. Il cristianesimo, secondo i termini della sua rivoluzionaria concezione dei rapporti di Dio con gli uomini, ha presto messo a punto un contesto abitativo ove, accanto alle dimore delle famiglie e come loro punto di riferimento, come loro centro, sorgeva sempre una dimora, che consentiva il continuo rinnovarsi dell’incontro di Dio con il suo popolo.
Le chiese cristiane, infatti, luoghi di una convocazione che attualizza ogni volta la reale presenza di Dio tra gli uomini, non sono facilmente paragonabili al templi di altre religioni, né sono del tutto analoghe alla sinagoghe, anch’esse luoghi di incontro. Tuttavia, come tutti i luoghi ‘sacri’ esse sono, in senso pieno, dimore, ma di una condizione umana trasfigurata dalla salvezza portata da Gesù Cristo. L’architettura che le definisce, che riesce a ritagliare dalla natura un frammento di spazio per trasfigurarlo, porta inscritto nelle sue forme il carattere primario della condizione umana del cristiano: la sua unità con gli altri nel corpo di Cristo, nella Chiesa.
Questo auspichiamo possa essere la chiesa che abbiamo progettato, consapevoli di servire una realtà di vita e un mistero che ci sopravanza infinitamente.