I Parroci promotori:
Don Umberto Caporali
Di: Giancarlo Pennacchietti
La comunità di Assago è debitrice nei confronti di don Enrico Vago per l’ideazione e la costruzione della nuova prestigiosa Chiesa di Santa Maria e verso don Umberto Caporali per il completamento dell’edificio religioso e la realizzazione del Centro parrocchiale. Cercheremo di individuare quale sia stato il contributo dei due parroci a questa impresa, sottolineando l’ispirazione e le istanze alla base della loro azione.
D. Lei don Umberto Caporali è stato nominato parroco di Assago nel settembre del ‘93, subentrando a Don Enrico, a sua volta diventato parroco a S. Eugenio a Milano. Nel ‘92 la nuova Chiesa è agibile ma non è affatto terminata, parecchio restava da fare. Qual era la situazione al momento del suo insediamento? Quali i problemi più urgenti e importanti da affrontare?
R. Intanto cominciamo a dire che i problemi più importanti e più urgenti erano certamente relativi alle anime della parrocchia e non alle strutture di cui si avvale la pastorale parrocchiale e quindi certamente il primo impegno fu quello di prendere contatto con la situazione locale, laici, collaborazioni, impegno, partecipazione.
Detto questo, che è il compito più importante di ogni parroco, per quanto riguarda invece le strutture parrocchiali, in Curia, quando mi informarono della loro intenzione di nominarmi parroco di Assago, mi segnalarono tre cose, che poi furono le prime di cui mi resi conto venendo qui sul posto. E cioè: 1) c’era da completare il complesso della nuova parrocchia, perché la Chiesa era in piedi ma mancava tutto il resto della struttura; 2) c’era da prendere di petto la situazione dell’antica chiesa di S. Desiderio, che era stata lasciata decadere; 3) c’era poi da completare la chiesa di S. Maria, che era stata edificata come struttura, ma mancava completamente della progettazione e realizzazione. dell’interno. Questa è la situazione come l’ho ereditata.
D. Nella sua missione di sacerdote e nel quadro della sua attività pastorale, cosa ha rappresentato per Lei assumere la titolarità della parrocchia di S. Desiderio di Assago e con quale stato d’animo si è accinto alla sua missione?
R. La parrocchia da cui provenivo era assolutamente analoga alla situazione in cui era venuta a trovarsi la parrocchia di Assago, perché anche lì c’era il vecchio paese di Basiglio e poi la nuova realtà urbana di Milano 3. Quindi, gli stessi problemi che avevo avuto prima li ho avuti qui. E cioè, riassumendo in concreto, i problemi legati alla necessità di sviluppare, visto che esisteva ma solo in forma larvata, uno spirito, una comunità parrocchiale, e questo è un impegno che non basta un parroco per realizzarlo, ci vuole molto ma molto tempo. Ma certamente questo è stato l’avvio della mia presenza di sacerdote in questa parrocchia, nell’ottica di creare quel movimento di persone, di collaborazione e impegni, orientati proprio alla crescita nella fede dei parrocchiani.
D. Lei ha portato avanti con determinazione l’opera meritoria di dare finalmente una veste definitiva al centro parrocchiale; il suo apporto più originale è relativo alla sistemazione dell’interno della Chiesa di S. Maria. Quale linee-guida hanno ispirato le sue scelte? Quali sono stati i problemi più grossi che ha dovuto affrontare in questi anni nel portare a termine i lavori del centro parrocchiale?
R. Per quanto riguarda i rapporti con la curia e relativamente alla sistemazione dell’interno il progetto è stato lungamente pensato, discusso e modificato, perché si è passati da un’impostazione a un’altra. Prima l’interno aveva un’impostazione longitudinale, invece la nostra Chiesa non è longitudinale. Ad un certo punto è apparsa evidente l’incongruenza di mettere l’altare in fondo alla Chiesa, come è normalmente in una Chiesa di pianta longitudinale, e quindi la necessità di studiare una collocazione dell’altare al centro; questo poi determinava tutto il resto. Si trattava di una soluzione innovativa: l’altare al centro è un derivato di una liturgia partecipata, mentre l’altare in fondo è il derivato di una liturgia precedente, dove la gente assisteva a queste cerimonie religiose distante e lontana. Questa soluzione ha incontrato forti difficoltà nella Commissione diocesana di arte sacra. Una parte della Commissione, pur essendo d’accordo in linea astratta, non era d’accordo in concreto perché diceva che questa Chiesa non era stata pensata così.
Nacque allora l’idea di fare una sperimentazione, provare in concreto a mettere la gente così come ipotizzato e vederne un po’ i frutti; furono poi quei frutti che convinsero. Quindi fu un momento di delusione prima, di insistenza nel prevedere una soluzione centralizzata dell’interno della Chiesa, di sperimentazione cui finalmente seguirono l’approvazione e la realizzazione.
D. E per la realizzazione delle opere parrocchiali vi sono state difficoltà? R. Non ci sono stati particolari problemi, una volta pensati bene gli utilizzi di cui la parrocchia aveva bisogno. In sostanza si trattava di aumentare il numero delle aule di catechesi, di fare una sala riunioni, di provvedere alle abitazioni dei sacerdoti.
Inoltre, bisognava risolvere un problema lasciato aperto e cioè quello della sacrestia. Allora il nuovo edifìcio da progettare fu pensato spostandolo interamente dalla via Matteotti (ove era previsto sul primo progetto), sulla via Dalla Chiesa, agganciato alla Chiesa: cioè la sacrestia diventava l’elemento di congiunzione tra la nuova costruzione e la Chiesa. Un altro problema che abbiamo dovuto affrontare è stato quello della Cappella feriale: essendo la Chiesa al primo piano quindi poco accessibile, abbiamo dovuto creare un ambiente facilmente accessibile e piccolo di dimensioni, adatto a visite estemporanee, per chi, passando davanti alla Chiesa, vuole fare un momento di preghiera.
D. Nel decennale del Suo servizio pastorale ad Assago, Lei ritiene che la nuova struttura abbia contribuito alla crescita e al rafforzamento della comunità religiosa assaghese? Può fare un bilancio della sua attività?
R. A conclusione di questa intervista, mi riaggancio invece all’apertura di questa intervista. La Chiesa, l’edificio, può contribuire sì alla crescita spirituale parrocchiale, ma in realtà è solo un contributo estetico. I santi sono santi anche in spelonche e caverne, viceversa anche la Chiesa più artistica o più rinomata non è in grado di produrre la santità della vita, può solo aiutarla. Quindi la struttura è solo un aiuto a un cammino spirituale che però non nasce dalla struttura, ma nasce dallo Spirito. Ben venga la Chiesa completata, bella, artistica, ben sapendo però che non servirà alla santificazione dei fedeli, li potrà aiutare, ma non provoca la santità.
Per quanto riguarda un bilancio, mi sembra troppo presto per farlo, perché la comunità non è ancora consolidata. Qualunque cosa si dica è fluida, in movimento.
A me sembra che ci sia stato un notevole cammino, da come trovai la parrocchia dieci anni fa a come è oggi, a livello anche della consapevolezza di essere una realtà nuova come parrocchia, come comunità. Don Enrico era vissuto in un paese che aveva già una sua identità, se la trascinava da secoli, di fronte al cambiamento aveva appena abbozzata una nuova pastorale che doveva affrontare il cambiamento della situazione. Lui l’aveva appena abbozzata, io l’ho portata avanti una decina d’anni, ma per me sono ancora pochi, ci vuole di più.